Riporto volentieri l’intervento che ho presentato il 25 settembre, a Torino, nel corso di una tavola rotonda sul tema: “Il silenzio dei cattolici in politica: perché?” insieme a Giampiero Leo, Giorgio Merlo e Michele Paolino.
Innanzitutto il silenzio dei cattolici in politica è frutto della fine non solo e non tanto della Democrazia Cristiana, ma della loro presenza istituzionale nella Seconda Repubblica.
Mi riferisco all’eutanasia della Margherita e dell’Ulivo, da un lato, e al fallimento del progetto dell’Udc dall’altro.
Nel Pd odierno è stato rimosso lo spirito dell’Ulivo che rappresentava la ragione più salda della presenza dei cattolici a sinistra, i quali solo in quella dinamica potevano ritrovare le ragioni dell’inappagamento del loro impegno entro i limiti delle condizioni storiche date, vedendovi il fondamento di una continua e crescente tensione tra le costrizioni della realtà e la speranza dell’ideale.
Anche il superamento del più tradizionale incontro tra laici e cattolici nella Margherita e l’approdo al Partito del Socialismo Europeo, prammatico, neo-contrattualista e poco propenso alla difesa di alcuni valori tipici della tradizione cattolica, hanno relegato i teo-dem entro un contesto non più in grado di rispondere a molte delle loro istanze più qualificanti.
Un percorso analogo e parallelo è avvenuto sul fronte moderato: l’Udc, dopo aver anteposto la prospettiva del partito della nazione al rilancio e all’aggiornamento identitario, non ha neppure saputo dare attuazione agli annunci, mentre i teo-cons, presenti soprattutto nelle forze conservatrici, non hanno potuto che con constatare l’insostenibilità della mediazione con una visione edonistica ed inconsistente sul piano valoriale e molto deludente su quello della conduzione politica.
Quindi i cattolici non partecipano più al campionato perché non hanno più una squadra. O se ne fanno una o saranno costretti a tifare per quella meno distante dai colori precedenti, anche se rimarranno senza gloria e senza passione.
Però il momento politico-istituzionale e gli equilibri tra i partiti hanno forse, nel giudizio dei cattolici sulla politica, un’importanza relativa, su cui si innesta il secondo tema, quello del futuro della politica, su cui all’apparente mestizia subentra una sorta di lungimiranza del disimpegno, favorita dalla consapevolezza attinta dalla Chiesa universale.
Certamente l’agenda della convivenza tra gli uomini e la possibilità che essa ne favorisca un’autentica promozione non passano più attraverso il dibattito e le scelte della politica italiana, così come essa si va sviluppando.
E, dunque, non si può pretendere che i cattolici, non solo in quanto tali, ma anche in quanto propugnatori singoli di una certa visione della cultura e della storia, siano costretti a scegliere tra l’ottimismo interessato del premier Renzi, l’impraticabilità delle politiche di chiusura di Salvini e l’inquietante fenomeno della non-democrazia della rete di Grillo.
Non lo fanno a ragione, perché i motivi dell’ottimismo debbono essere mitigati dalla consapevolezza di vivere tempi nuovi, che richiedono una revisione degli stili di vita, della salvaguardia del creato e delle prospettive di una crescita, sempre auspicabile e possibile, ma non nei termini, perlomeno in occidente, di una continua galoppata verso l’aumento del benessere, spesso solo materiale, utile per spezzoni di propaganda elettorale.
E non possono naturalmente accettare che la chiave di lettura della società di domani sia un’inutile ed infastidita chiusura nei confronti del vicino, dello straniero e del meno fortunato. Anche perché non è questo il nodo focale per risolvere i reali problemi, i quali, nel mondo globale, non possono essere fermati con muri fisici, ma richiedono un impegno concreto verso lo sviluppo della democrazia, della tolleranza e della convivenza, verso la consapevolezza che solo le politiche orientate alla pace attenuano e non ingigantiscono i problemi e verso un’attenzione particolare ai mutamenti di una condizione lavorativa in cui chi sta troppo in basso soffre, ma anche chi sta più in alto inizia a nutrire motivi di grande inquietudine.
E sono naturalmente, i cattolici, lontani ed estranei a quanti generano inquietudine per le prospettive manipolatorie cui sembrano avvezzi. Si inizia con il web e non si sa dove si va a finire. Senza contare che questi guru appaiono, stando in buona compagnia, ostili alla visione antropologica cristiana che è, poi, la ragione per cui in politica si scende e si sta. Infine, un approccio frettoloso, manicheo e saccente ai problemi ha sempre riservato pericoli, dall’età dei Lumi in poi.
Quindi, per certi versi, il silenzio, o meglio, il rifiuto della ribalta da parte dei cattolici italiani potrebbe essere quasi necessario, addirittura premonitore della ricerca di una politica nuova, diversa e migliore.
Più difficile, invece, inserire elementi di ottimismo su un altro aspetto, quello della tutela del patrimonio di opere capaci di dare gambe alla sussidiarietà.
Dalla banche popolari, al sindacato, ai patronati, alle scuole paritarie, ma possiamo anche metterci la stampa e l’editoria, il terzo settore e la cooperazione, il mondo cattolico riesce solo in parte a tutelare ed a tutelarsi.
Certo, è un mordersi la coda: la mancanza di rappresentanza indebolisce la capacità di tutela e l’indebolimento nel sociale non favorisce il rafforzamento della rappresentanza.
Tuttavia, non è purtroppo solo così.
Chi sono i cattolici, oggi, nella società, quando, in particolar modo, operano nell’ambito di un’aggregazione tesa al rifiuto della frammentazione sociale e della solitudine?
Non sono più gli aristocratici che con grande generosità promossero le prime aggregazioni pre-politiche, in pieno non expedit. Ma non sono neppure gli artefici di quelle casse rurali che permisero l’affrancamento dei territori soprattutto nel nord del Paese. Non sono vessati da un regime e, quindi, la loro autonomia di giudizio non può essere assimilata all’anelito alla libertà possibile del Ventennio. Non sono nemmeno più i protagonisti collaterali di una grande pagina della storia della democrazia italiana ed europea perché, in qualche misura, quella storia si è compiuta.
Sono tante cose, alcune contraddittorie, altre autoreferenziali, alcune generose, altre in linea con gli appelli ad essere “in uscita”.
Per le ragioni che ho esposto, dunque, il silenzio dei cattolici ha un perché.
Vi sono, però, anche le condizioni, sia pure flebili, perché possa avere una fine.