Intervento al Congresso MCL Piemonte

mcarmagnola 21 gennaio 2014 0
Intervento al Congresso MCL Piemonte

 

Susa 2Mauro Carmagnola, Susa, 25 gennaio

per MCL Piemonte, attraverso:

 

Adornato Ferdinando

Agnelli Gianni

Amato Giuliano

Baget Bozzo Gianni

Benedetto XIV

Berlusconi Silvio

Biagi Marco

Bindi Rosy

Brunetta Renato

Buttiglione Rocco

Carter Jimmy

Casini Pierferdinando

Costalli Carlo

Crepaldi Gianpaolo

Croce Benedetto

Deaglio Mario

De Bortoll Ferruccio

De Mita Ciriaco

De Sanctis Francesco

Descartes René

Di Capua Giovanni

Dossetti Luigi

Einaudi Luigi

Fanello Marcucci Gabriella

Felice Flavio

Fontana Stefano

Formigoni Roberto

Francesco

Galli Della Loggia Ernesto

Gentiloni Vincenzo Ottorino

Gesù di Nazaret

Giovanni Evangelista

Giovanni Paolo II

Giussani Luigi

Gramsci Antonio

Graziosi Andrea

Guicciardini Francesco

Horkheimer Max

Joe l’idraulico

Lani Lucio

Levi della Torre Stefano

Machiavelli Niccolò

Maritain Jacques

Martin Luther

Martinazzoli Mino

Marx Karl

Mathieu Vittorio

Montanelli Indro

Monticone Alberto

Moritani Masanori

Moro Aldo

Nixon Richard

Obama Barack

O’Connors James

O’Neill Jim

Paolo VI

Paolo di Tarso

Parisi Arturo

Peccei Aurelio

Pollastrini Barbara

Ratzinger Joseph

Reagan Ronald

Reich Wilheim

Rotondi Gianfranco

Rousseau Jean Jacques

Servan Schreiber Jean Jacques

Soros George

Splenger Oswald

Sturzo Luigi

Tarantelli Ezio

Toniolo Luigi

Visentini Bruno

Wojtyla Karol

 

La specificità appassionante e coinvolgente del Movimento Cristiano Lavoratori resta strettamente e, per certi versi, inscindibilmente, correlata alla coraggiosa vicenda della sua costituzione.

Essa sancisce il distacco da scelte che, ben presto, non avrebbero più avuto ragion d’essere, superate come sarebbero state dalle vicende della storia, ma i cui pericolosi rigurgiti avrebbero reso e rendono tuttora attuale una lettura più corretta degli avvenimenti, quale è quella proposta, con coerenza, dal MCL.

Ci siamo trovati, dal 1972 in poi, al cospetto di una faglia complessa, responsabile di un terremoto prolungato nel tempo e vasto nello spazio, nei confronti del quale non ci saremmo attrezzati a sufficienza.

Insomma, in tutto e per tutto dentro una storia italiana, anche nei profili geologici.

Uno dei primi segnali di un mondo che cambiava era rappresentato dall’enciclica sociale Populorum Progressio, pubblicata nel 1967.

Sembrava che la Chiesa non guardasse più il mondo attraverso le inferriate delle sacrestie, ma avesse preso il volo con l’Apollo 4 e contemplasse dallo spazio l’emisfero formato dalle terre e dai mari e coperto dalle nubi, assumendosi il peso dei suoi problemi, dal post-colonialismo alla solidarietà tra i popoli, dalla giustizia nelle relazioni commerciali alla pace, propugnando, esplicitamente, uno sviluppo non ridotto alla semplice crescita economica ma che, per essere autentico, risultasse integrale, volto alla promozione di ogni uomo e di tutto l’uomo.

L’umanesimo integrale rappresentava l’insegnamento più originale di Jacques Maritain, e, forse, di tutto il cattolicesimo sociale dagli Anni Trenta in poi, ma l’enciclica si affrancava dai timori nei confronti della modernità per abbracciare con affetto responsabile la complessità del mondo contemporaneo.

Anche se la cesura con Cartesio, Lutero e Rousseau non era ricomponibile con semplici atti di benevolenza, non ci si poteva esimere dalla prospettiva di una cultura nuova capace, in qualche modo, di render giustizia al tomismo andando oltre il positivismo, recuperando logica e metafisica al di là delle macerie dell’immanentismo.

Altre voci, qualche volta estranee all’esperienza ma non alla sensibilità del mondo cattolico, allargavano lo spettro delle criticità ai limiti della crescita del pianeta: dalle risorse non rinnovabili all’inquinamento, dall’approvvigionamento alimentare alla crescita demografica.

Era il 1972 e se ne parlava nel Rapporto sui limiti dello sviluppo, commissionato dal Club di Roma di Aurelio Peccei.

Anche in questo caso i prodromi di una nuova politica energetica, fondata sulle fonti rinnovabili, si facevano sentire.

Era invece James O’Connors, da un punto di vista parziale ma intuitivo, a sollevare la questione della crisi fiscale dello Stato, fin dal 1973.

La tendenza del tardo capitalismo a sostenere il proprio connubio con la democrazia, affidandosi ad un montante indebitamento dello Stato, appariva una distorsione del mondo occidentale, impegnato a sostenere artificiosamente la domanda, anche nella stagione delle riforme liberiste, su cui ritorneremo tra breve.

Una scelta che andava (e va tuttora) diretta alla pancia della gente, non alla sua promozione, utilizzando abilmente le tecniche finanziarie a breve, ma scordandone le conseguenze a lungo.

Per il momento sottolineiamo che globalizzazione e crisi finanziaria non sono un fenomeno del terzo millennio, ma una realtà già piena e matura negli anni Settanta di quello precedente.

Incidentalmente, si può stabilire un parallelismo coll’Impero di Roma, universale e fraglie, costretto a continue svalutazioni monetarie. E qui ci fermiamo per non aprire una parentesi interessante, ma leziosa.

Tuttavia, come gli imperatori, ci fu chi, nello specifico il Presidente degli Stati Uniti, giocò fino in fondo la carta della limatura della moneta quale strumento efficace per la tenuta del sistema.

Fu Nixon, di fronte ad un’economia indebolita, provata dai costi della guerra in Vietnam, che, nel 1971, con la fine del regime di cambi fissi previsti dagli accordi di Bretton Woods, permise la fluttuazione del dollaro, la sua svalutazione e quelle limatine già usate per i sesterzi di Roma.

Il tutto per finanziare al meglio un’economia di guerra ed un welfare impegnativo.

Nel frattempo la Chiesa non taceva.

Il Suo magistero si sviluppava anche attraverso uno strumento minore, il messaggio di inizio anno per la Giornata della Pace, istituita nel 1968.

In un mondo, anche cristiano, per secoli orientato al conflitto, la Chiesa metteva in evidenza come la pace meritasse ed imponesse di essere posta a capo dell’anno.

Una scelta, occultata dal consumismo e dal conformismo chiassoso delle bollicine, che mantiene intatto il suo silenzioso e prezioso valore.

Basta scorrere i titoli dei messaggi cha da Paolo VI a Francesco sono stati inviati ai capi delle nazioni ed agli uomini di buona volontà per comprendere come la coesistenza tra i popoli sia divenuto il nodo epocale e come solo un’umanità rigenerata nello spirito possa affrontare questa sfida con adeguatezza e con la consapevolezza di trovarsi di fronte alla sintesi delle questioni di libertà, solidarietà, sviluppo e giustizia.

Di fronte agli scricchiolii dell’edificio globale, il sistema trovò qualche rimedio.

Giunsero i rampanti Anni Ottanta dell’era Reagan, dove ancora una volta si intersecavano prammatismo e profezia.

Il primo venne rappresentato dal monetarismo neo-liberista le cui ricette prevedevano il controllo dell’offerta monetaria, la riduzione dell’inflazione, del debito pubblico, delle tasse e della regolamentazione dell’attività economica.

Scelta di parte o scelta di sistema?

Opzione consolidata se consideriamo che la politica monetarista fu proseguita anche dall’amministrazione del democratico Carter e se assumiamo quella bella ed anticonformistica definizione che Einaudi dà del liberismo, antitetico all’interventismo, ma lontano anche dalla mitologia spontaneista. Ma posto su un piano differente ed inferiore rispetto al liberalismo.

“Il legislatore liberista non ti dirà affatto, o uomo, quel che devi fare, ma fisserà i limiti entro i quali potrai a tuo rischio liberamente muoverti… Nel regime liberistico la legge pone i vincoli all’operare degli uomini, ed i vincoli possono essere numerosi e sono destinati a diventare tanto più numerosi quanto più complicata diventa la struttura economica… Il liberismo è una “soluzione concreta” che gli economisti danno al problema di cercare con l’osservazione ed il ragionamento quale sia la via più adatta per raggiungere la massima elevazione umana.”

Insomma, per dirla con Croce, il liberismo è la traduzione empirica, applicata ai problemi concreti economici, di una concezione più vasta ed etica, che è quella del liberalismo.

Il secondo aspetto, quello profetico, si sviluppò attorno a tre momenti simbolici: la diffusione dell’elettronica, la caduta del Muro di Berlino, il carisma del Papa venuto da lontano.

Il radicale (di destra) Jean Jacques Servan Schreiber spiegò ne “La sfida mondiale” come le nuove tecnologie elettroniche  avrebbero aperto alla conoscenza nuovi spazi prima inimmaginabili, rendendo fondamentali non più gli strumenti produttivi, ma l’informazione ed il pensiero umano: era la rivoluzione fondata sul silicio. Era quanto il giapponese Masanori Moritani poteva testimoniare in anticipo dal suo evoluto paese.

Quella che ormai sperimentiamo tuti i giorni, col telefonino ed i personal computer, impensabile fino a qualche decennio fa.

Un mondo orientato alla conoscenza, alla libertà ed alla competitività non poteva avere come seconda stampella un impero, quale quello sovietico, fondato sul dogmatismo liberticida e sull’inefficienza economica.

Il suo destino sarebbe stato l’implosione, iniziata a Danzica e conclusasi, emblematicamente, con la caduta del Muro di Berlino, anche se la sofferenze sarebbero continuate, per esempio, a Bucarest e perdurano tuttoggi in poche, superstiti enclavi del dogmatismo marxista.

I fatti polacchi si collegarono al culmine della forza evocativa degli Anni Ottanta, rappresentata dal pontificato di Giovanni Paolo II.

Un magistero ampio e complesso, in cui i viaggi apostolici capaci di far risuonare la voce di Cristo nei cinque continenti si intersecarono con le giornate mondiali della gioventù, e dove le numerosissime prese di posizione dottrinali si conciliarono con un una lettura moderna e tradizionale al tempo stesso, lontana da fughe in avanti e da concessioni alle ideologie secolarizzate e materialistiche.

Tra gli insegnamenti in materia sociale resta di sicuro riferimento la Centesimus Annus, pubblicata un secolo dopo a ricordo ed integrazione della Rerum Novarum, che ci ricorda:

“La moderna economia d’impresa comporta aspetti positivi, la cui radice è la libertà della persona, che si esprime in campo economico come in tanti altri campi. L’economia, infatti, è un settore della multiforme attività umana, ed in essa, come in ogni altro campo, vale il diritto alla libertà, come il dovere di fare un uso responsabile di essa…

… Nonostante i grandi mutamenti avvenuti nelle società più avanzate, le carenze umane del capitalismo, col conseguente dominio delle cose sugli uomini, sono tutt’altro che scomparse; anzi, per i poveri alla mancanza di beni materiali si è aggiunta quella del sapere e della conoscenza, che impedisce loro di uscire dallo stato di umiliante subordinazione…

… La Chiesa riconosce la giusta funzione del profitto, come indicatore del buon andamento dell’azienda: quando un’azienda produce profitto, ciò significa che i fattori produttivi sono stati adeguatamente impiegati ed i corrispettivi bisogni umani debitamente soddisfatti. Tuttavia, il profitto non è l’unico indice delle condizioni dell’azienda. È possibile che i conti economici siano in ordine ed insieme che gli uomini, che costituiscono il patrimonio più prezioso dell’azienda, siano umiliati e offesi nella loro dignità. Oltre ad essere moralmente inammissibile, ciò non può non avere in prospettiva riflessi negativi anche per l’efficienza economica dell’azienda. Scopo dell’impresa, infatti, non è semplicemente la produzione del profitto, bensì l’esistenza stessa dell’impresa come comunità di uomini che, in diverso modo, perseguono il soddisfacimento dei loro fondamentali bisogni e costituiscono un particolare gruppo al servizio dell’intera società. Il profitto è un regolatore della vita dell’azienda, ma non è l’unico; ad esso va aggiunta la considerazione di altri fattori umani e morali che, a lungo periodo, sono almeno egualmente essenziali per la vita dell’impresa”.

La Chiesa di Wojtyla guarderà la terra dall’alto dello Shuttle, subito pronta, però, a ridiscendervi per confondersi nel mondo, costituendo il principale baluardo contro il totalitarismo materialista ed ateo.

Dicevamo di trovarci all’interno di una storia italiana.

Un Paese la cui vicenda è indissolubilmente legata al cattolicesimo, declinato secondo gli appuntamenti che storicizzano, qui più che altrove, il rapporto degli uomini con la fede, dai tempi dell’incontro del cristianesimo coll’Impero, proprio nella terra del martirio e della sepoltura di Pietro, e della trasformazione dei luoghi dell’amministrazione pubblica, quali le basiliche, in imponenti spazi destinati alla liturgia.

In questo senso si può leggere anche l’esperienza politica dei cattolici nell’Italia del secondo dopoguerra.

In quali termini essa coinvolge le vicende attuali del Movimento Cristiano Lavoratori?

Perlomeno attorno a due buone ragioni.

La prima è rappresentata dalla genesi comune di partiti, sindacati, associazioni di categoria e cooperative di ispirazione cristiana di cui anche MCL fa parte.

Essa trova le radici più profonde in quell’impegno, sbocciato nell’Ottocento e fiorito dopo la pubblicazione della Rerum Novarum, nei paesi importanti d’Europa.

Essa sostiene quanto sia imprescindibile lo sviluppo sereno armonioso e religioso di una comunità fondata sull’assunzione di alcuni punti fermi dell’ordinamento sociale e politico: libertà, pace, solidarietà, sussidiarietà.

Sono gli anni in cui il pensiero e l’azione sociale dei cattolici si svilupparono assieme alla consapevolezza di una visione provvidenziale della storia patria, attorno, magari al Sacré-Coeur di Parigi od a Notre-Dame-de-Fourviére di Lione, grandiosi segni votivi di fede ed amore per la propria nazione.

Una stagione alta e consapevole per la missione dei cattolici nella storia che persisterà, malgrado i tragici totalitarismi del Novecento, fino alla seconda parte del secolo lungo, vedendo proprio nei democratici cristiani i costruttori di un continente europeo, determinato a lasciarsi alle spalle secoli di conflitti insieme a due abominevoli stermini.

MCL è parte di questa storia.

Molti altri sono parte di questa storia e quando non lo riconoscono compiono scelte sempre riduttive e spesso comode.

La seconda è frutto di una riflessione ancor più ampia e risponde al seguente quesito: il cristianesimo, o quantomeno il cattolicesimo, può essere considerato una cultura, una chiave per interpretare e creare modelli di pensiero, standoci dentro o prospettando nuovi orizzonti, creando un rapporto tra fede e laicità?

Sì, il cristianesimo sviluppa una cultura propria e particolare.

Essa si fonda su una riflessione, dapprima teologica, assolutamente più complessa, per esempio delle altre due religioni monoteiste, dove Ha Shem ed Uno sono assolutamente più facilmente percepibili, proprio sotto lo squisito profilo teoretico.

Dice l’evangelista Giovanni (16, 12-14) “In quel tempo, disse Gesù ai suoi discepoli: “Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso. Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità, perché non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annuncerà le cose future. Egli mi glorificherà, perché prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà. Tutto quello che il Padre possiede è mio; per questo ho detto che prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà”

Il mistero trinitario è rivelato dai Vangeli, ma solo nel contesto culturale ellenistico trova compiutezza.

Ne sono prova i primi Concili che daranno solidità dottrinale, nell’alveo del pensiero della patristica, assistiti dallo Spirito, ma sempre soggetti alle categorie della libera elaborazione concettuale.

Ne è conferma quel Credo di Nicea, laddove introduce concetti complessi quali la generazione della stessa sostanza del Padre, la creazione di tutte le cose attraverso di Lui, la discesa dal cielo e l’incarnazione per opera dello Spirito Santo

Insomma, il cristianesimo non è riconducibile ad una sorta di sentimentalismo filantropico e devozionale, ma ricerca dai suoi albori un fondamento razionale alle assunzioni di fede.

E’ stato Benedetto XVI a richiamare con vigore questo aspetto della rivelazione, almeno in due circostanze.

La prima fu in occasione dell’incontro coi rappresentanti della scienza, il 12 settembre 2006, nell’Aula Magna dell’Università di Regensburg, laddove, tra l’altro, affermò:

“… A questo punto si apre, nella comprensione di Dio e quindi nella realizzazione concreta della religione, un dilemma che oggi ci sfida in modo molto diretto. La convinzione che agire contro la ragione sia in contraddizione con la natura di Dio, è soltanto un pensiero greco o vale sempre e per se stesso? Io penso che in questo punto si manifesti la profonda concordanza tra ciò che è greco nel senso migliore e ciò che è fede in Dio sul fondamento della Bibbia. Modificando il primo versetto del Libro della Genesi, il primo versetto dell’intera Sacra Scrittura, Giovanni ha iniziato il prologo del suo Vangelo con le parole: “In principio era il logos”. E’ questa proprio la stessa parola che usa l’imperatore (Manuele II Paleologo ndr): Dio agisce  “sin logo”, con logos. Logos significa insieme ragione e parola – una ragione che è creatrice e capace di comunicarsi ma, appunto, come ragione. Giovanni con ciò ci ha donato la parola conclusiva sul concetto biblico di Dio, la parola in cui tutte le vie spesso faticose e tortuose della fede biblica raggiungono la loro meta, trovano la loro sintesi. In principio era il  logos, e il logos è Dio, ci dice l’evangelista. La visione di Paolo, davanti al quale si erano chiuse le vie dell’Asia e che, in sogno, vide un Macedone e sentì la sua supplica: “Passa in Macedonia e aiutaci!” (cfr At 16,6-10) – questa visione può essere interpretata come una “condensazione” della necessità intrinseca di un avvicinamento tra la fede biblica e l’interrogarsi greco”.

La seconda, il 5 giugno 2010, presso il Palazzo Presidenziale di Nicosia, avvenne durante l’incontro con le autorità civili di quel paese, dove puntualizzò il nesso tra verità morale e politica, quindi tra lo sviluppo più immediato della fede e la politica stessa.

Dice Ratzinger “…  Prima di tutto, il promuovere la verità morale significa agire in modo responsabile sulla base della conoscenza dei fatti reali … Un secondo modo di promuovere la verità morale consiste nel destrutturare le ideologie politiche che altrimenti rappresenterebbero la verità … In terzo luogo, il promuovere la verità morale nella vita pubblica esige uno sforzo costante per fondare la legge positiva sui principi della legge naturale…”

Esso comprendeva una riflessione sulla società, soprattutto dove i cristiani svolgevano un ruolo di rilevanza pubblica, nel rapporto con la quale a consolidate premesse dovrebbero seguire azioni conseguenti.

Quindi, i cattolici non possono voltarsi dall’altra parte quando si parla di uno dei problemi principali dell’uomo; la convivenza tra i componenti  di questa comunità di esseri viventi forniti di una caratteristica peculiare: la socialità.

Anche laddove il corso degli eventi non si sviluppa come si sarebbe desiderato.

Come in Italia, a partire dall’ultimo decennio del secolo scorso.

Ha ragione Gabriella Fanello Marcucci quando rimproverava il partito cattolico di aver abbandonato la virtuosità nella gestione della cosa pubblica dopo la stagione centrista e degasperiana ed aveva parimenti ragione Gianni Baget Bozzo nell’accusare il partito cristiano di essere stato complice del prepotente ingresso nella società italiana degli stili di vita tipici della società liberal americana, che sono stati coniugati nei disvalori radicali.

Restiamo tuttavia convinti che l’allargamento delle basi dello Stato e l’apertura ai socialisti fosse in qualche modo ineluttabile ed abbia portato risultato più positivi che negativi, anche se profondamente contraddittori.

E non possiamo non prendere atto di quanto sarebbe stata debole l’unica prospettiva alternativa, quella dell’alleanza autosufficiente con la sola laicité moderata, che, significativamente, chiuse l’esperienza dei partiti ideologici otto-novecenteschi, proprio sul terreno a lei più congeniale, quello del rigore economico, vedendo due suoi esponenti di grandissimo spicco, Bruno Visentini e Gianni Agnelli, uno ai vertici di un’impresa destinata a morire ed un’altra a trasformarsi completamente per sopravvivere (forse solo nominalmente).

Siamo persuasi che lo storico tentativo di Iniziativa Democratica di coniugare un  atteggiamento pragmatico con l’inappagamento dossettiano abbia rappresentato un momento alto, foriero di grandi risultati, tanto da far diventare gli italiani, semplicemente, ricchi (forse solo di beni materiali) da poveri che erano.

Avremmo poi visto come il dossettismo, quando non riuscì ad incontrarsi con la sensibilità e la rappresentanza dei moderati, degenerò nel prodismo, che, oltre a pensare, al pari di don Giuseppe, il Concilio Vaticano II come evento escatologico unico nella storia della Chiesa e la costituzione repubblicana come il fondamento che permetteva agli italiani di esistere come nazione dopo la crisi del nazionalismo, combinò i due elementi per dare forma ad una corrente della sinistra, la cui gestione partitica fu affidata ad Arturo Parisi e la cui figura ideale fu espressa da Rosy Bindi.

In questo senso il prodismo si è rivelata un’ideologia teologica, destinata prima ad annegarsi in una cultura aliena, se non ostile, e, quindi, ad annullarsi all’interno di una mondo che l’ha condotta all’insignificanza.

Tutto ciò appartiene ad una vicenda successiva, su cui avremo modo di ritornare.

Siamo ancora negli Anni Sessanta. Insieme al benessere procedeva la scristianizzazione del Paese, la caduta delle vocazioni, la rarefazione degli ordini religiosi, la crisi dell’Azione Cattolica.

Il Concilio poco c’entra con questi fenomeni, anzi le letture plurali seguite, spesso poco rigorose, di una fede à-la-carte, avrebbero dovuto ampliare il caleidoscopio, se non dei carismi, almeno delle aggregazioni: tutti potevano riconoscersi in ciò cui aspiravano: i preti-operai nella classe, la teologia della liberazione nell’escatologia, il rinnovamento liturgico nella libertà.

Ma la Provvidenza si prese la rivincita nei confronti dell’eterodossia, negandole perlomeno il conforto dei numeri.

Questa emorragia fu in parte attenuata dal sorgere dei movimenti che, spesso, coniugarono ascolto della società e coerenza nella testimonianza.

Tra questi, la Gioventù Studentesca di don Giussani, di cui riprendiamo da “Il senso di Dio e l’uomo moderno” uno dei numerosi passi sul rapporto fede-contemporaneità, declinato con accenti ricchi di fondate speranze: “ … Viviamo perciò in un momento drammaticamente bello perché sempre di più tutto poggia su una nostra scelta, ed essa deve lottare contro una mentalità comune fatta di quattro secoli, nella quale però oggi appaiono, come abbiamo visto, la nostalgia e gli spazi di una consapevolezza di esigenza umana in altri periodi storici più oscura. Dice al termine del suo itinerario filosofico Horkheimer “ Senza la rivoluzione di un dio l’uomo non riesce più a raccapezzarsi su se stesso …”

Venne il referendum sul divorzio del 1974 e, seguirono, l’anno successivo, le disastrose elezioni regionali del 1975, che sancirono, al di là delle logiche e delle strumentalizzazioni tutte interne al partito cattolico, lo scollamento tra società, valori e religione di Stato, fino al recupero alle politiche del 20 giugno 1976 che suggellarono il mancato sorpasso comunista accolto come un “successo insperato” (anche grazie ai tanti Montanelli che, turandosi il naso, votarono al posto giusto).

Così Moro, intervenendo ai gruppi parlamentari il 28 febbraio 1978, in quello che sarebbe stato il suo ultimo discorso, poteva dire:

“… Non abbiamo perduto in senso proprio l’egemonia, ma certamente la nostra egemonia è attenuata…  Abbiamo operato, si è detto, “nel quadro del confronto”… Abbiamo cercato di stabilire un certo contatto reciprocamente costruttivo, sulla base non di un urto polemico quotidiano, come era nella tradizione, a suo tempo naturalmente comprensibile, ma sulla base di un certo spirito costruttivo, per ricercare se tra queste due forze (la Dc ed il Pci, ndr) antitetiche, alternative, della tradizione italiana, vi potesse essere qualche punto di convergenza, per lo meno su alcune cose; se vi potesse essere interesse a capirsi reciprocamente intorno al modo di soluzione di alcuni problemi del Paese…. Se non avessimo saputo cambiare la nostra posizione quando era venuto il momento di farlo, noi non avremmo tenuto, malgrado tutto, per più di trent’anni la gestione della vita del Paese. L’abbiamo tenuta perché siamo stati capaci di flessibilità ed insieme capaci di una assoluta coerenza con noi stessi, sicché in nessun momento abbiamo smarrito il collegamento con le radici profonde del nostro essere nella società italiana… Temo il dato serpeggiante del rifiuto dell’autorità, rifiuto del vincolo, della deformazione della libertà che non sappia accettare né vincoli né solidarietà. Questo io temo e penso che l’aiuto di altri ci possa giovare nel cercare di riparare questa crisi della nostra società…” E concludeva “Camminiamo insieme perché l’avvenire appartiene in larga misura ancora a noi”.

Gli Anni Ottanta arrivarono anche in Italia.

Senza la reaganomics e privi delle riforme che avrebbero dovuto salvare il Paese dall’ingessamento della sua economia.

La ripresa del rapporto tra cattolici e socialisti rappresentò un’alleanza competitiva tesa ad ampliare l’intervento e l’occupazione dello Stato.

In questo passaggio si scorge, dopo l’eclissi dell’egemonia negli Anni Settanta, il tentativo, addirittura, di procedere alla delegittimazione della presenza politica dei cattolici.

Favorita da tre passaggi in grado di fotografare il decennio.

Primo. L’oblio, ormai completo, e tanto più grave perché finalmente si intravvedevano le condizioni mondiali per un cambio nel rapporto tra economia ed istituzioni, dell’insegnamento di Sturzo. Il prete di Caltagirone sferzava la politica (e non solo essa) perché si liberasse dalle male bestie dello statalismo, della partitocrazia e dell’abuso del denaro pubblico come via ad una democrazia matura. Solo così si sarebbe ottenuta una società più efficiente e responsabile. Si assecondò invece la spartizione partitocratica ed inefficiente. Unica attenuante: la difficoltà di battere il comunismo sul terreno di una democrazia che faceva del rivendicazionismo, del corporativismo e della rigidità una caratteristica sempre più diffusa e condivisa.

Secondo. Il deterioramento della finanza pubblica, diretta conseguenza del crescente peso degli interessi sul debito descritti nel paragrafo precedente. Si spese tanto e male. Seguendo l’interessante ragionamento di Giuliano Amato, in Grandi illusioni, scritto a quattro mani con Andrea Graziosi, egli sintetizza l’inizio degli Anni Ottanta (ed il loro prosieguo avrebbe seguito le medesime logiche) in questo modo. “ La nuova realtà che si andava profilando – i mutamenti demografici italiani, il boom delle “tigri asiatiche” e ciò che esso lasciava intravedere, il calo dell’inflazione e l’aumento dei tassi di interesse, gli effetti sul bilancio della nuova legislazione ecc. – avrebbe richiesto un mutamento deciso delle politiche seguite fino ad allora. Come sappiamo, ciò non fu fatto e anzi si lasciò che il deficit primario superasse nella prima metà del decennio il 5% all’anno, cui si sommava il crescente peso degli interessi sul debito. Quest’ultimo quindi esplose aumentando a ritmi del 15-20% all’anno, come “se avessimo vissuto improvvisamente tutti noi, sessanta milioni di italiani, da satrapi. Nessuno aveva naturalmente vissuto da satrapo, anzi. Più semplicemente si era continuato ad assicurare a milioni di persone quello che sembrava – e per certi versa era – un minimo di equità sociale e redistributiva, inferiore alle aspettative diffuse nel paese, senza farne pagare il prezzo e comunque andando oltre il possibile… Lo sviluppo della democrazia era stato insomma accompagnato da quello delle spese per strati sempre più vasti della popolazione, ma ricorrendo in modo crescente all’indebitamento: questa, più di qualunque altra e certo più di complotti, mafie, malavita, doppi Stati ecc., è l’essenza della storia del nostro paese in quei decenni.”

Terzo. Il vertice del partito di ispirazione cristiana divenne l’espressione della sinistra interna a vocazione tecnocratica, sorta, a suo tempo, come emanazione tipica di un’industria di Stato: l’Eni. Esso aveva man mano perduto il rapporto col proprio retroterra popolare e con l’ambizione di fare del lavoro italiano uno dei protagonisti della trasformazione del mondo. Crescendo il distacco con le esperienze tipiche della propria identità, si lasciò spazio a fenomeni confusi e contradditori coma la Rete ed a teorizzatori dotati di una certa credibilità, che insinuarono i falsi miti della società civile, gli ambigui teoremi del sospetto come anticamera della verità, la presunzione moralizzatrice come strumento per superare una politica inquinata ed avrebbero condotto prima alla delegittimazione, quindi alla marginalizzazione della presenza cristiana nella vita pubblica.

Dopo l’era Reagan, l’attentato alle Torri Gemelle, la prima e la seconda guerra del Golfo si aprirono scenari nuovi, confusi, inquietanti, prodromici ad un certo declino dell’Occidente, in generale, e dell’Europa nello specifico.

Essa smarrì la sua identità, non riuscendo nemmeno ad elaborare una Costituzione che sapesse indicare nelle radici greco-cristiane ed in quelle illuministiche la bussola del suo tortuoso percorso.

Si diede una moneta unica, ma non un governo: restò una confederazione di Stati sovrani, un vaso di coccio tra vasi di ferro.

Intanto la Cina cresceva, diventando la fabbrica del mondo.

Restava un regime totalitario ad economia di mercato, mentre gli Stati canaglia ed il terrorismo di matrice islamista conquistavano la scena.

Intanto Giovanni Paolo II, il 13 gennaio 2003, nel discorso al Corpo Diplomatico, ammoniva:

«NO ALLA GUERRA»! “La guerra non è mai una fatalità; essa è sempre una sconfitta dell’umanità. Il diritto internazionale, il dialogo leale, la solidarietà fra Stati, l’esercizio nobile della diplomazia, sono mezzi degni dell’uomo e delle Nazioni per risolvere i loro contenziosi.”

E ribadiva «SÌ ALLA VITA»! “Rispettare la vita e le vite: tutto comincia da qui, poiché il più fondamentale diritto umano è il diritto alla vita. L’aborto, l’eutanasia o la clonazione umana, ad esempio, rischiano di ridurre la persona umana ad un semplice oggetto: in qualche modo, la vita e la morte a comando! Quando sono prive di ogni criterio morale, le ricerche scientifiche che manipolano le sorgenti della vita, sono una negazione dell’essere e della dignità della persona.”

Questo è un tema che assumerà un’importanza particolare durante il suo magistero.

Lo spostamento verso Est del cuore del mondo non diminuì il bisogno di liquidità dell’Occidente.

Accanto ad una capacità di governo del sistema esplosero ripetute crisi finanziarie, che posero inquietanti interrogativi anche sul piano etico.

Le principali: la crisi asiatica del 1997, la crisi russa ed il fallimento di LTCM del 1998, la bolla dot.com ed il crollo del Nasdaq nel 2000, il crack Enron del 2001 e, infine, la crisi dei sub-prime nel 2007.

Episodi significativi, di cui il più gravido di conseguenze sociali ed individuali, è stato l’ultimo, quello che in qualche misura stiamo ancora metabolizzando, capace di coinvolgere un po’ tutti: Stati sovrani, banche, imprenditori, lavoratori, vecchi e nuovi poveri.

E’ stata la crisi di Joe l’idraulico, che, nel 2008, fermando Obama al termine di un comizio elettorale, gli chiese “Credi nell’American Dream?”. “Certo che credo nel sogno americano”, gli rispose il futuro presidente. “Allora perché mi vuoi penalizzare se io cerco di raggiungerlo?”, replicò l’artigiano.

Fu innanzitutto la crisi del ceto medio occidentale, dei mutui contratti e non più onorabili, per il subentrare del rallentamento economico-produttivo, fondato sulla bolla delle cartolarizzazioni e della finanza creativa e tossica.

Ma fu, anzi è, una crisi in cui il sistema ha mostrato di essere alle corde o, invece, l’intreccio di un insieme di interessi in perenne ristrutturazione attraverso l’analisi e la ponderazione di interventi tesi ad evitare guai peggiori? I problemi stavano nell’insipienza tecnica di chi governava il sistema, non necessariamente attraverso la politica, anzi spesso e volentieri tenendosi ben lontani dalla politica e sfruttandola per quanto si poteva o, non piuttosto, nel declino di un mondo vecchio e pigro, cui ne stava subentrando uno nuovo e spregiudicato?

Come affermava Mario Deaglio, in un’intervista ad Avvenire dell’11 agosto 2010, “nei Paesi avanzati la quota dinamica della popolazione, quella dei giovani, tende a ridursi mentre nei Bric registra un aumento costante, la Cina sforna ogni anno  mezzo milione di ingegneri contro i 280mila dell’Europa ed il numero di pubblicazioni scientifiche dei “Bric” cresce vertiginosamente anno dopo anno”… Il Vecchio Continente è stato ormai estromesso dall’area del Pacifico. E stiamo perdendo anche l’Africa, “conquistata” dagli asiatici. Quello che mi auguro è che l’Europa possa diventare la Svizzera del mondo: un Continente che presidia alcuni settori di eccellenza, con una qualità della vita elevata e la tranquillità sociale.”

Un augurio di circostanza, in definitiva.

Quando Giovanni Paolo II insisteva sui temi della vita non blandiva quella parte di mondo cattolico più sensibile più a questi appelli che a quelli di natura egualitaria e redistributiva, ma coglieva il senso più profondo dello sviluppo umano che solo nella proiezione al futuro, nella speranza e nella fiducia può dare impulso anche all’azione economica.

Nel ripercorrere in parallelo vicende mondiali e storie italiane, focalizzate sull’esperienza sociale dei cattolici, non possiamo non tornare sull’epilogo della loro esperienza politica unitaria, che va dal congresso del 1989 alla diaspora di inizio Anni Novanta, passando attraverso il “Manifesto di Martinazzoli”, propedeutico ad una sorta di commissariamento da parte di segmenti importanti di mondo cattolico nei confronti di una classe dirigente di partito secolarizzata.

Se è vero che inseguendo la laicitè tecnocratica ed inefficiente, prima De Mita e, poi, Casini (con le strampalaggini del Partito della Nazione ed una testata di partito chiamata Liberal e diretta da Adornato) diedero un contributo allo scollamento tra il partito cattolico ed il suo retroterra culturale, è anche vero che l’imposizione di commissari rispondenti a questa od a quella appartenenza ecclesiale non diedero alcun apporto alla ripresa di dialogo tra politica e società.

Anzi, si accentuò la percezione che le sensibilità dei movimenti condizionassero la vita di partito ed i suoi equilibri, preconizzassero la fine dell’unità dei cattolici, ormai appesa solo al filo del proporzionale, fino a quando anche l’introduzione di un pallido maggioritario a tendenza bipolare avrebbe condotto gli uni a schierarsi di qui e gli altri di là, i primi con Bindi e Monticone, i secondi con Formigoni e Buttiglione, in definitiva chi con l’egualitarismo, chi con la vita.

Ci si scordò che la società italiana era sempre più secolarizzata, scristianizzata e che una ripresa di presenza e di radicamento sarebbe potuta passare solo attraverso una capacità di interpretazione più vasta del dato ecclesiale.

Era quanto avrebbero potuto garantire organismi di categoria, sindacati e movimenti come il MCL, che restarono estranei rispetto ad una polemica che montava al cospetto di una gestione sempre più latitante e stanca, consumatasi con l’invio di un celebre fax di dimissioni.

La lontananza dalla società reale aveva condotto ad un deficit di mediazione, divenuto apicale quando segmenti non irrisori di mondo cattolico tentarono di saldare la richiesta di remissione del debito dei paesi più poveri con le istanze no-global esplose al G8 di Genova del 2001, successivamente riprese, come un fiume carsico, nell’acquiescenza e nella lettura religiosa del movimento No Tav in Valsusa.

La diaspora rappresentò l’esito delle contrapposizioni “teologiche” e si consumò attraverso due vicende profondamente diverse: il modesto, per quanto improvvido ed improvviso, accordo Buttiglione – Berlusconi per le regionali del 2000 e l’autocandidatura di Prodi alla guida del governo in nome e per conto di un’area politica con cui non si era confrontato, nel merito e nel metodo, di cui bene tratta Giovanni Di Capua nel suo “Postdemocristiani smemorati”.

Il papa aveva già precisato gli indirizzi della Chiesa nell’omelia tenuta durante la messa da lui presieduta il 23 novembre 1995 nello stadio di Palermo, sostenendo che non era più “il tempo della semplice conservazione dell’esistente, ma della missione”. Altrettanto significativa fu la sua affermazione in base alla quale “la chiesa non deve e non intende coinvolgersi con alcuna scelta di schieramento politico o di partito”, frase tanto più importante in quanto pronunciata all’indomani del crollo della Democrazia cristiana durante la delicata e discussa evoluzione del paese dalla prima alla seconda repubblica. Venne così legittimato il pluralismo politico dei cristiani in Italia, chiarendo che ciò non avrebbe significato affatto “‘una diaspora culturale dei cattolici”.

Entrammo, così, credenti e no, nella mesta bolgia dell’ultimo ventennio.

Quattro lustri durante i quali si sono registrati l’annientamento della grande impresa manifatturiera italiana e  la  sua riconduzione ad un ruolo di terzista dell’area franco-tedesca, correlati depauperamento tecnico e formativo ed all’inaridimento della diffusione e della produzione culturale. E qui parliamo di quelle che, in brutti termini vetero-marxisti sarebbero state considerate, tanto per intenderci, condizioni strutturali.

In merito alle parallele sovrastrutture, seguendo una terminologia non nostra ma sufficientemente chiara, abbiamo assistito al crescere delle illusioni, all’ampliamento degli egoismi, al prevalere, in tutti i contesti, di una sorta di infantilismo, che ha portato a privilegiare il dato illusorio dei desideri su quello realistico dell’impegno, più duro ma molto più redditizio.

Insomma, prima la Milano da bere, poi il Drive In e, infine, l’inseguimento di funamboliche promesse, dal milione di posti di lavoro al salario minimo di cittadinanza per tutti.

La cosiddetta svolta “ruiniana” fu la presa d’atto che i cattolici erano ormai una minoranza in Italia ed avrebbero dovuto agire in seno alle formazioni politiche affinché queste assumessero fra i loro principi la dottrina sociale della Chiesa.

Furono gli anni di un rinnovato patto Gentiloni con la destra, di una golden share da giocare all’interno della sinistra, di un rumoroso manipolo di atei devoti e di un ingorgo sulla via di Damasco, per riprendere un’espressione di  Stefano Levi della Torre.

Risultò una scelta non priva di risultati: nel 2004 fu approvata la legge 40 sulla fecondazione assistita, nel 2005 il relativo referendum abrogativo registrò una bassissima partecipazione tale da renderlo vano, mentre in precedenza il tema delle coppie di fatto, dai DICO elaborati da Bindi e Pollastrini ai tentativi di Brunetta e Rotondi, non raggiunse neppure la discussione in aula.

Era, però, del tutto evidente che, in mancanza di una riscossa culturale, sociale ed organizzativa la presenza cattolica nel Paese avrebbe subito un ulteriore deterioramento e che la tenuta sui temi etici era dovuta a condizioni e combinazioni precarie.

La sortita di Todi rappresentò un’intelligente e coraggiosa chiamata a raccolta il cui protagonista più lungimirante e tenace fu il Presidente del MCL Carlo Costalli.

Si trattava di ripartire dalle rappresentanze nel sociale del mondo cattolico organizzato: sindacato del lavoro dipendente e delle campagne, organizzazioni imprenditoriali di area, cooperazione, servizi sociali.

Nella società dell’individualismo e del rampantismo prevalsero, purtroppo, anche da parte di chi avrebbe dovuto essere estraneo a certi costumi, i personalismi, destinati ad infrangersi nel soliloquio di una legislatura da nominati.

E’ però da Todi che non possiamo non ripartire.

E dal clima che si creò in quei mesi attorno al possibile, rinnovato protagonismo dei cattolici sulla scena pubblica, persino la stampa laica, sia pure in modo assai riduttivo, si dimostrò speranzosa.

Se Galli Della Loggia nel Corriere della Sera del 24 giugno 2011 affermava che “il sistema politico non ha bisogno di un partito cattolico…” e proseguiva “Non si tratta di politica, ma di altro. Si tratta di continuare alla costruzione di una cultura civica, di rafforzare un insieme di valori pubblici, di costruire disposizioni d’animo collettivo orientato al bene comune…” e se De Bortoli, sulla medesima testata, il 17 ottobre dello stesso anno incalzava “… quello che ci aspetta da loro è un contributo decisivo nella formazione di una classe dirigente di qualità che persegua l’interesse comune …” si poteva constatare ancora una volta come la borghesia italiana, sotto gli inevitabili riconoscimenti, continuasse ad avere una visione riduttiva del cattolicesimo sociale, blandito quando si attardava tra pulpiti, sacrestie, mense ed ospedali, ma rintuzzato quando proponeva una sua originale e complessiva presenza nella società.

Restava, tuttavia, il conforto per gli attestati di stima.

Se tra i mesi dello spread alle stelle e del crepuscolo del berlusconismo come risposta di governo e le elezioni del 2013 si consumò la speranza di fare dei cattolici un rinnovato soggetto della politica, è anche vero che, forse, a venticinque anni dalla caduta del Muro, sono altre le sfide che abbiamo di fronte, le quali richiedono strumenti nuovi, rinnovata consapevolezza ed un po’ di fantasia.

Dall’89 in poi, in Italia ed in tutto l’Occidente, si è fatta strada una sorta di svolta antropologica, che ha perseguito lo scopo di sovvertire la concezione greco-cristiana dell’uomo.

In essa c’è tutto il Tramonto dell’Occidente di Oswald Splenger, ma, soprattutto, si trova il Suicidio della Rivoluzione di Augusto Del Noce.

Come afferma Vittorio Mathieu su Il Giornale del 6 settembre 2004: “ … Dopo il ’68, la mentalità comunistica (meglio se non dichiarata) s’insinua e s’insedia nella cultura, dall’Università alla scuola primaria (quella che Lucio  Lami chiamò nel suo libro del ’76 La scuola del plagio: e in parte tale resta oggi). Attraverso questo processo Gramsci voleva raggiungere un totalitarismo consensuale, con pochissime maniere forti: quindi non staliniano. La critica di Del Noce è che, in tal modo, “il gramscismo non colpisce affatto la borghesia”. Anzi, “le fornisce l’occasione di realizzarsi allo stato puro”, aiutandola a liberarsi di quei “valori” platonicamente oppressivi, che nel Novecento vengono attaccati da ogni parte. Ma questo rovesciamento di tutti i valori, che si vuole più autentico di quello di Nietzsche, non porta, come sperava Gramsci, al “nuovo Principe” (cioè al machiavellico partito comunista), bensì all’uomo senza fede del Guicciardini (opposto al Machiavelli da De Sanctis, in un celebre saggio ricordato da Gramsci). Comprensibile, dunque, il “crociogramscismo accademico” di molti ex crociani, allineati sul comunismo, come tanti ex fascisti di sinistra. Collante di tale alleanza è l’”immanentismo”, che accetta la Chiesa  cattolica purché perda la fede nel trascendente e si trasformi in un certo sociale. Del resto, il Vaticano II, quale è visto dai “nuovi preti”, non è forse un suicidio mancato?”

E’ Papa Ratzinger, Benedetto XVI, nel suo discorso al Bundestag, a fondare sul diritto naturale il percorso di una corretta visione dell’uomo del ventunesimo secolo (ed anche del diciannovesimo e del ventesimo, quante tragedie si sarebbero evitate se si fossero seguiti questi insegnamenti!), incarnato nella storia e nella cultura, nelle relazioni e negli interessi.

“ … Contrariamente ad altre grandi religioni, il cristianesimo non ha mai imposto allo Stato e alla società un diritto rivelato, mai un ordinamento giuridico derivante da una rivelazione. Ha invece rimandato alla natura e alla ragione quali vere fonti  del diritto – ha rimandato all’armonia tra ragione oggettiva e soggettiva, un’armonia che però presuppone l’essere ambedue le sfere fondate nella Ragione creatrice di Dio. Per lo sviluppo del diritto e per lo sviluppo dell’umanità è stato decisivo che i teologi cristiani abbiano preso posizione contro il diritto religioso, richiesto dalla fede nelle divinità, e si siano messi dalla parte della filosofia, riconoscendo come fonte giuridica valida per tutti la ragione e la natura nella loro        correlazione. Questa scelta l’aveva già compiuta san Paolo, quando, nella sua Lettera ai Romani, afferma: “Quando i pagani, che non hanno la Legge (la Torah di Israele), per natura agiscono secondo la Legge, essi… sono legge a se stessi. Essi dimostrano che quanto la Legge esige è scritto nei loro cuori, come risulta dalla testimonianza della loro coscienza…” (Rm 2, 14s) … L’idea del diritto naturale è considerata oggi una dottrina cattolica piuttosto singolare, su cui non varrebbe la pena discutere al di fuori dell’ambito cattolico, così che quasi ci si vergogna di menzionarne anche soltanto il termine… Dove vige il dominio esclusivo della ragione positivista – e ciò è in gran parte in caso della nostra coscienza pubblica – le fonti classiche di conoscenza dell’ethos e del diritto   sono messe fuori gioco.     Questa è una situazione drammatica che interessa tutti e su cui è necessaria una discussione pubblica; invitare urgentemente ad essa è un’intenzione essenziale di questo discorso.”

Se il diritto naturale è posto a sostegno della dottrina sociale della Chiesa, la sua emarginazione comporta anche l’assunzione di nuove sfide per i cristiani nel mondo d’oggi.

In primis quella sul terreno dei principi non negoziabili.

Come scrive monsignor Giampaolo Crepaldi sull’intervento dell’anno del Quarto Rapporto sulla Dottrina sociale della Chiesa nel mondo, “…I principi non negoziabili sono stati enunciati in più occasioni da Benedetto XVI. Sia l’espressione sia l’elenco erano però già presenti nella Nota dottrinale su alcune questioni riguardanti l’impegno sociale e politico dei cattolici che la Congregazione per la Dottrina della Fede pubblicò nel 2002, a firma dell’allora Prefetto Cardinale Joseph Ratzinger. Pur trattandosi di un elenco di tematiche – la vita, la famiglia, la libertà di educazione soprattutto – essi non vanno intesi solo come degli argomenti di una agenda politica, ma come un orizzonte strategico dentro cui muoversi affinché la disgregazione della modernità venga frenata e con essa la riduzione della fede cristiana ad “utile cagnolino da salotto” o a “hobby personale”… Essi non vanno intesi nemmeno come l’ultima resistenza del cattolicesimo, la ridotta in cui ci si è asserragliati e in cui si combatte la battaglia decisiva contro il relativismo. I principi non negoziabili sono invece l’indicazione della speranza che nasce dalla verità. Verità che la Chiesa enuncia, basandosi sulla rivelazione e sul deposito che essa conserva e tramanda, con cui ridestare anche la verità della ragione, quando questa risulti sopita o addirittura avvilita. L’enunciazione dei principi non negoziabili, assieme al dovere assoluto di rispettarli, è un annuncio, una luce della fede e della ragione. Essi sono importanti e “strategici”, prima di tutto, proprio perché salvano il mondo dalla disperazione e ridanno fiducia alla ragione in virtù di una illuminazione della fede. Così facendo corroborano anche la fede perché la riscoprono come conoscenza e non come illusione …”

In seconda battuta quella sul piano della sfida antropologica, divenuta la nuova frontiera della dottrina sociale.

Del resto, fallita la rivoluzione strumentalizzando la classe operaia e costruendo attorno alla lotta di classe tutto l’impianto artefatto hegelo-marxista, adesso la rivoluzione, sempre finta ed artificialmente liberatoria, deve cercare nuove frontiere.

Essa investe i temi della bio-etica e, riprendendo la sintesi introduttiva del Quarto Rapporto sulla Dottrina sociale della Chiesa nel mondo, stilata, tra gli altri, da Flavio Felice e Stefano Fontana, ed avente come titolo “La colonizzazione della natura umana”, si constata come “Anche in quest’anno (2011 ndr) sulla scena mondiale si sono manifestati gravi emergenze legate alla povertà o allo sfruttamento, ma riteniamo che, pur nella loro drammaticità, esse non costituiscano una novità né forse un danno paragonabile alla “colonizzazione della natura umana”, un fenomeno che si sta imponendo su vasta scala anche per le grandi risorse che vi sono impiegate e per la mobilitazione militante dei media ed ha un carattere sovversivo dei legami sociali, di frammentazione funzionale dei rapporti, di accentuato individualismo disincarnato e che mira a riplasmare le relazioni sociali non più sulla base della natura umana ma sulla base di un desiderio individuale autoreferenziale… Per questo motivo il nostro Quarto Rapporto ha dedicatolo studio del problema dell’anno all’ideologia del genere… L’ideologia di genere si è diffusa, senza incontrare una vera opposizione, nei Paesi avanzati ed ormai viene anche insegnata nei manuali scolastici delle scuole pubbliche senza che questo faccia sorgere grandi contestazioni… E’ una ideologia sottile e pervasiva, che si appella ai “diritti individuali”, di cui l’Occidente ha fatto il proprio dogma, e ad una presunta uguaglianza tra individui asessuati, ossia astratti, per condurre una decostruzione dell’intero impianto sociale. Se non il sesso, come dato antropologico complessivo, ma la sessualità come comportamento è all’origine delle relazioni sociali, allora queste non ci sono “date” ma sono da noi “scelte”. Alla base ci sarebbero individui astratti che sceglierebbero in seguito il loro orientamento sessuale senza alcun riferimento al dato naturale. Si tratterebbe della discriminazione dell’eterosessualità, ossia della differenza sessuale, e della imposizione culturale della transessualità, ossia dell’indifferenza sessuale. Si tratterebbe dell’assoluto dominio della tecnica sulle relazioni umane. La tecnica ha reso possibile l’emancipazione della cultura dalla natura e quindi ha reso possibile essere mamma senza essere donna, essere padre senza essere uomo, essere uomo pur essendo donna  ed essere donna pur essendo uomo, essere padre o madre senza sapere di chi ed essere figlio senza sapere di quale padre o di quale madre. La tecnica rende possibile la sessualità s-naturata, quindi come puro esercizio tecnico da parte di un essere privo di identità. Nella società avanza non l’assolutizzazione del sesso ma della sessualità e la messa da parte del sesso, di cui parla ormai quasi solo la Chiesa cattolica. L’ideologia del gender è un nuovo colonialismo dell’Occidente sul resto del mondo… La nuova ideologia del genere promana in tutti gli aspetti della società  la riplasma su basi  innaturali. In tutti gli Stati in cui le coppie di fatto o le unioni gay vengono riconosciute segue inevitabilmente la riforma del diritto di famiglia, del regime fiscale, delle finalità e dei metodi delle strutture educative. L’impossibilità di condannare moralmente l’omosessualità per non rischiare di esseri accusati di omofobia compromette la  espressione delle idee, l’educazione dei figli, la difficoltà a proporre pubblicamente il modello di famiglia eterosessuale. Le “nuove famiglie” vengono promosse dai media senza possibilità di contraddittorio perché si tratta di un pensiero unico imperante…”

Karl Marx col Capitale ha perso, tenterà di prendersi la rivincita Wilhelm Reich con La Rivoluzione sessuale.

Il nostro è un movimento che cerca nel lavoro il suo fulcro e trova nel senso pieno del lavoro la ragione della sua proposta.

Che fare per il lavoro?

Innanzitutto evitare di sostenere tesi fuorvianti.

E’ facile profeta George Soros nell’affermare in “La Crisi Globale” che questa difficile stagione, anche per quanto abbiamo esposto sopra, non sarà breve, soprattutto in Europa. E se pensiamo che gli strumenti finanziari detengono un valore pari a cinquanta volte il Pil mondiale di un anno, pari ad oltre 70.000 miliardi di dollari, possiamo immaginare quanto sia diffusa e facile la tentazione alla speculazione e quanto fragile possa risultare la capacità di tenuta di un sistema mal governato.

Così pure ha ragione Jim O’Neill a sostenere che dopo i Bric (Brasile, Russia, India, Cina), toccherà a Bangladesh, Egitto, Indonesia, Iran, Messico, Nigeria, Pakistan, Filippine, Corea del Sud, Turchia e Vietnam spostare il baricentro del mondo verso sud.

Che cosa proporre, dunque, guardando in faccia il nostro Paese e rivolgendosi con onestà ai nostri concittadini?

Primo. Analizzare correttamente la situazione economica e sociale, coniugando la gestione rigorosa dell’economia con l’attenzione verso il primato della persona. Insomma, riprendere ed aggiornare lo spirito di Giuseppe Toniolo.

Secondo. Tradurre in azione sociale e politica l’aspirazione alla libertà e l’anelito alla condivisione. Recuperare ed attualizzare, in questo modo, l’insegnamento di Luigi Sturzo.

Terzo. Perseverare nell’impegno propositivo e riformista, tenace e graduale, per sostenere e valorizzare la cultura del lavoro, anche in un Paese in cui, lo affermava già Einaudi sul Corriere della Sera del 7 settembre 1920, non si sono mai sopite istanze oltranziste ed distruttive. Consolidare ed ampliare il patrimonio del Movimento Cristiano Lavoratori, onorando, in questo modo, anche il sacrificio di chi, come Ezio Tarantelli e Marco Biagi, si è immolato per una certa idea autentica, moderna e piena di lavoro.

Come loro, occorre spendersi, se è necessario e quando giunge il momento.

Per affermare le proprie idee si può correre il rischio, come è accaduto a Servan Schreiber, di subire un rovescio finanziario, o, come è avvenuto a Mounier, di mettere a repentaglio la propria salute e la propria vita.

Noi non corriamo questi rischi perché non stiamo testimoniando la nostra cultura lungo un percorso solitario.

Ma la vogliamo più presente ed attiva. Più concreta e determinata.

Per questo lavoreremo, tutti insieme, per fare più forte l’MCL del Piemonte, mettendolo al servizio della nostra comunità.

Siamo nati, come movimento, l’8 dicembre del 1972, ricorrenza dell’Immacolata, ed a Lei, come sempre, ci rimettiamo, chiedendoLe, fiduciosi, sostegno nelle difficoltà, ispirazione nelle scelte e coerenza nei comportamenti.

 

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